formazione psichiatrica

 

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI BOLOGNA

MOSCATO MARIA TERESA

EMERGENZA EDUCATIVA O MUTAZIONE ANTROPOLOGICA?

Una premessa: fenomenologia del processo educativo

E preliminarmente necessario definire in quale senso userò il termine educazio-ne in queste pagine. È evidente infatti che, anche dopo che il termine “emergenza educativa” è diventato attuale, ciascuno di noi continua a pensare l’educazione nei termini più diversi. In realtà, la definizione di educazione può costituire di per sé una chiave di lettura del presente, definendo i prevedibili bisogni dell’infanzia e della gioventù, e anche degli adulti loro genitori. Per parlare o meno di “emergenza educativa”, in altri termini, abbiamo bisogno di condividere una definizione di educazione. La fenomenologia dell’evento educativo evidenzia, all’interpretazione pedago-gica, il dinamismo di un processo interattivo caratterizzato da almeno quattro ele-menti costanti: il primo elemento è la prolungata immaturità del cucciolo dell’uo-mo, la sua lunga “infanzia” (o meglio, la sua lunga e “neotenica” età evolutiva), che ne determina la particolare malleabilità per l’arco di almeno un ventennio. A questa lunga malleabilità (substrato di quello stesso concetto di “educabilità” pro-prio di diverse filosofie dell’educazione), si contrappone sempre un orizzonte socio-culturale e socio-storico concreto, al cui interno il “cucciolo d’uomo” si farà personalmente umano. La presenza di una socio cultura è quindi la seconda co-stante fenomenologica del processo educativo. Parlare di “orizzonte culturale” comporta indicare un complesso smisurato di conoscenze ed ignoranze (pregiudizi e superstizioni fanno parte degli orizzonti culturali) di vario livello, di tecniche e tecnologie, di linguaggi, narrazioni, criteri estetici. Ogni socio-cultura è un sistema articolato e dinamico che include una totalità di esperienza culturale condivisa, dalle tecniche di cucina all’immagine di Dio, e che include quindi anche ciò che Polanyi ha definito “conoscenza inespressa”. L’orizzonte socio-culturale storico può implicare anche la coesistenza di diversi sistemi socio-culturali fra loro in conflitto. Probabilmente, la presunta omogeneità e coesione delle socio culture antiche, o di quelle “primitive”, è stata affermata a partire dai nostri inadeguati strumenti di lettura di esse, oppure come effetto delle rappresentazioni sociali con cui, in ogni momento storico, una società umana legge e racconta se stessa. Nella concretezza dell’esistenza personale, tuttavia, indipendentemente dall’ampiezza ed eventuale conflittualità interna di esso, l’orizzonte culturale impatta la persona sempre attraverso una serie di mediazioni (una piccola comunità montana, oppure una rete televisiva internazionale, costituiscono comunque una forma di mediazio-ne; e tutte le forme di insegnamento sono in primo luogo forme di mediazione). Vale a dire che il tipo di mediazione attraverso il quale il soggetto che cresce viene messo in rapporto all’orizzonte culturale è un elemento essenziale del processo educativo, rispetto al quale la tipologia della mediazione può essere perfino più importante della cultura mediata. Per millenni della storia umana, l’orizzonte cul-turale è stato di norma mediato da una serie di micro-ambienti sociali (famiglia, scuola, le comunità territoriali di vita, i coetanei compagni di svago e di lavoro, lo stesso ambiente di lavoro in quanto tale). Si tratta di quelli che la sociologia indivi-dua come “gruppi primari” di appartenenza. Per conseguenza, il terzo elemento che caratterizza il processo educativo è dato da una serie di specifiche relazioni umane, riconoscibili come “educative”, in quanto assolvono funzioni che rispondono a bisogni del soggetto in crescita. Collocate sempre all’interno di gruppi primari, queste relazioni fra adulti e bambini implicano processi di reciproca identifica-zione, e mediano l’orizzonte culturale (o gli orizzonti culturali) di riferimento, ag-giungendo ai suoi infiniti significati simbolici anche una serie di risonanze emotivo -affettive. La nozione di “identificazione”, che è stata elaborata dalla ricerca psica-nalitica, ci permette di superare ogni concezione puramente trasmissiva dell’edu-cazione (e perfino dell’insegnamento), di superare anche qualsiasi concezione imitativa dell’educazione stessa, e ci permette di comprendere come conoscenze, norme e valori, stili di condotta, vengano interiorizzati nel corso dell’età evolutiva divenendo esse stesse “materia” dell’apparato dell’Io. Insieme, la nozione di iden-tificazione permette di spiegare l’intimità psicologica e il forte legame che si ge-nera nelle relazioni educative in senso proprio (e quindi i possibili conflitti e le ambivalenze di tali legami). Quanto appena affermato comporta che il piccolo dell’uomo, potenzialmente sociale già alla nascita, impari di fatto la socialità attraverso le relazioni personali che instaura all’interno dell’orizzonte culturale di riferimento. I gruppi primari al cui interno queste relazioni si stabiliscono (la famiglia per prima), in termini relati-vamente indipendenti dal grado di consapevolezza personale di ciascuno, deter-minano, attraverso le relazioni educative, non solo le conoscenze, ma anche i siste-mi motivazionali che attivano la volontà del nuovo nato. La relazione educativa è strutturalmente asimmetrica ed è dinamica essa stessa, in quanto esiste in funzione dell’autonomia personale del nuovo nato: all’inizio della vita, in assenza di autonomia dell’educando, la relazione interviene in termini di cura, di controllo autorevole, di guida. In presenza di una crescente autonomia, la cura educativa si ritrae progressivamente e l’asimmetria della relazione si riduce: il bambino di un tempo, divenuto preadolescente e adolescente, diventa anche pro-gressivamente corresponsabile del progetto educativo che lo riguarda, correspon-sabile del progetto di sé, ed infine responsabile unico ed ultimo della costruzione autorealizzativa di sé. In questo senso, è corretto affermare, sia che nessuno può essere educato contro la sua volontà, sia che nessuno può educarsi da solo. Ma è anche abbastanza evidente che chi parla dell’educazione come una “trasmissione” di conoscenze , esprime già una definizione pregiudizialmente riduttiva di un fe-nomeno molto più complesso. In realtà, ogni autentico educatore, genitore o insegnante, anche con diverso grado di consapevolezza, è sempre “uno che lavora per rendersi superfluo”. L’af-fermazione che il Vangelo attribuisce a Giovanni Battista rispetto al Cristo: “Bi-sogna che egli cresca e che io diminuisca”, ogni educatore dovrà attribuirla a se stesso e perseguirla deliberatamente dentro la relazione educativa . Anche per que-sta ragione il processo educativo implica sempre, ed inevitabilmente, un certo grado di conflitto interno alla relazione educativa (di tale conflitto esistono presu-mibilmente livelli fisiologici e livelli patologici, che intervengono nell’esito della relazione educativa). L’autonomia personale di ogni nuovo nato (o almeno il raggiungimento della sua soglia minima) è essa stessa la quarta delle costanti nella fenomenologia dell’educazione. Non c’è processo educativo che non abbia come fine (nel senso di scopo e nel senso di termine) il raggiungimento di essa, sebbene le forme concrete di tale autonomia siano determinate dalla cultura storica di riferimento. Perciò, seb-bene non esistano, nella storia dell’umanità, due tipologie di esito educativo iden-tiche fra loro, si deve riconoscere che tutte le forme ideali e i modelli, praticati e teorizzati, di educazione avranno come esito l’autonomia personale del nuovo nato. L’autonomia è la condizione psichica della libertà e il suo precedente ineliminabile. Comunque si definisca la libertà umana, nelle sue dimensioni etiche, politiche, reli-giose, senza il substrato psichico della raggiunta autonomia, essa è una parola vuo-ta. Anche le metafisiche creazioniste potrebbero riconoscere la differenza fra una libertà potenziale ed una libertà agita, così come appare evidente la differenza fra un embrione umano ed una persona adulta (senza che questo riduca la dignità ontologica dell’embrione) . In verità, confondiamo troppo spesso lo spirito con la psiche . Nella sua concretezza psichica, l’autonomia è sempre di natura intellettuale/co-gnitiva (autonomia del giudizio), ma è anche, e inseparabilmente, autonomia della volontà: le due fondamentali dimensioni della condotta adulta (i poteri che identifi-cano l’adulto in quanto tale), e cioè il potere di scelta e il potere di decisione, evi-denziano sempre una sintesi di conoscenza e volizione, giudizio intellettuale ed orientamento affettivo. È chiaro che solo il raggiungimento di questa soglia di autonomia permetterà poi a ciascuno di progettare e riprogettare percorsi formativi personali nell’arco delle stagioni adulte della sua vita; gli darà modo di vivere le proprie trasformazioni comprendendo e dirigendo così la sua storia di vita. In as-senza di un esito educativo, non è neppure ipotizzabile che un adulto continui a formarsi: è piuttosto prevedibile che egli “si lasci vivere” subendo anche le proprie trasformazioni, che avranno quindi una direzione involutiva. Permane quindi un legame strettissimo fra l’idea di educazione (esito della educabilità dell’età evolu-tiva) e quella di formazione (esito della perfettibilità della natura umana e delle decisioni della persona). Questa sintetica definizione non costituisce certo una novità nella storia umana, per quanto le parole usate appartengano al nostro tempo. La definizione è stata di fatto dimenticata (o rimossa) nella cultura occidentale dell’ultimo mezzo secolo, e in ciò risiede la prima causa di una serie di difficoltà che oggi ci sfidano dal punto di vista educativo. Che la rappresentazione di educazione che ho usato non sia “nuova” può essere documentato con molti riferimenti, ma ne farò uno solo, a titolo esemplificativo. In un passo della Repubblica, quasi incidentalmente, Platone scrive: “Non si permette (ai fanciulli) di essere liberi finché non abbiamo organiz-zato dentro di essi, come in uno stato, una costituzione e, coltivando la loro parte migliore con la migliore nostra, non abbiamo insediato nel fanciullo al nostro posto un custode e governatore. Allora soltanto possiamo lasciarlo libero” . La metafora della città interiore, con la sua costituzione e il suo governatore, evidenzia l’interiorizzazione delle norme come condizione dell’autonomia perso-nale, che è raffigurata appunto dal “custode interno”, generato nel fanciullo dal processo educativo. È ancora da sottolineare, nella metafora platonica, quel “colti-vando la loro parte migliore con la migliore nostra”, altra metafora nella metafora, che evidenzia la consapevolezza di un dinamismo interattivo, fra adulti e bambini, di una responsabilità progettuale asimmetrica, di una potenzialità germinativa che esige “coltivazione”, cioè progetto, selezione e decisione, non senza rischi: l’edu-catore deve sempre decidere quale sia “la parte migliore” di sé con cui avviare la coltivazione della “parte migliore” dei fanciulli. Detto in altri termini, la rappresen-tazione dell’educazione presente per millenni nella cultura occidentale, in qualsiasi versione sia giunta fino a noi, sottintende sempre che l’umanità alla nascita sia una pura potenza, e che solo attraverso un’azione collettiva della comunità adulta (e sempre sperando nell’assistenza benevola della divinità), il figlio, quella vita nuova che costituisce sempre anche la “novità della vita” , diverrà pienamente umano. Cerimonie e rituali iniziatici, nelle cultura antiche, ma anche grandi narrazioni fino all’età presente, hanno sempre messo in scena la necessità che ogni immaturo ven-ga in qualche modo “messo alla prova”, che “dimostri” il proprio valore, rivelando quelle “virtù” (maschili e femminili) che la comunità di riferimento gli ha proposto come caratterizzanti l’umanità desiderabile. E il valore era un tempo la condizione del riconoscimento sociale e dell’accettazione personale di ciascun membro di un gruppo . Ciò lasciava implicita l’idea forte che ci si formasse deliberatamente per “valere”, e non che si esprimesse la propria spontaneità come valore. L’autonomia personale comporta sempre la possibilità di rivedere e modificare le norme ricevute, sia sul piano etico-politico, sia sul piano tecnico-esecutivo. E di fatto nessuna generazione gestisce la propria eredità culturale senza apportarvi alcuna modifica: più o meno conflittualmente, in forme e modi diversi, ogni cultura così si trasforma per effetto delle decisioni personali dei suoi singoli membri, e an-che per l’effetto combinato di una serie infinita di personali trasgressioni intel-lettuali ed etiche. La “tradizione culturale”, che si è presentata ad ogni nuovo nato come una sorta di inamovibile barriera/confine/roccia che lo limitava, si rivela di-namica e vitale essa stessa come le radici vive di grandi alberi: l’apparato radicale si modifica sotterraneamente come si sviluppano rami e foglie all’esterno, raffor-zandosi a vicenda. La “mutazione antropologica” del nostro tempo Per quanto possa apparire eccessivo parlare di “mutazione antropologica”, vor-rei esaminare alcuni elementi culturali, che direttamente agiscono sui processi educativi delle ultime generazioni, per evidenziare le caratteristiche di un cam-biamento che non ha uguali nella storia dell’umanità. Per quanto gli elementi che indicherò siano inestricabilmente connessi al nostro concreto e materiale stile di vi-ta, mi si permetta di partire da alcune idee chiave che, penetrate ormai nelle nostre rappresentazioni, costituiscono delle categorie di lettura della fenomenologia del-l’educazione, e dunque condizionano e determinano le condotte educative di tutti gli adulti. Il primo elemento che dobbiamo esaminare può essere definito, in termini peda-gogici, una “concezione adultistica dell’infanzia”, che poi determina fenomeni di adultismo nella vita dei soggetti in età evolutiva. Questo adultismo precoce, am-piamente individuato in diversi studi sociologici e psicologici, consiste nell’an-ticipazione all’inizio della pre-adolescenza (e perfino nella seconda infanzia) di condotte una volta considerate caratteristicamente adulte, e che quindi contras-segnavano l’inizio della giovinezza. Mi riferisco, per esempio, alle uscite collettive in assenza di adulti e all’inizio precoce della vita sessuale. Oggi si è considerati adulti abbastanza da prendere una pizza con la propria classe prima della quinta elementare. Circa la precocità delle prime esperienze sessuali esistono dati della ricerca psicosociale che la stimano attestata prima dei 14 anni, almeno per una lar-ghissima parte della popolazione adolescente. Per un verso, l’adultismo accelera e anticipa il trasformarsi del gruppo dei coe-tanei in un contesto relazionale di tipo educativo: per l’altro verso, proprio il grup-po primario di tipo familiare sembra presentare una debolezza educativa sempre maggiore, e ciò fa supporre che il preadolescente ricerchi nel gruppo dei coetanei sicurezze affettive e modelli significanti insufficientemente offerti dal suo ambien-te familiare. Dietro tutti gli elementi adultistici del costume (questi e molti altri che non riusciremmo neppure ad indicare tutti) si evince, ovviamente, anche una spe-cifica rappresentazione dell’infanzia, che si è consolidata alla metà del secolo scor-so come precipitato di una serie di teorie, che riguardano la natura umana in quanto tale e la sua evoluzione in termini personali, la libertà etica e politica, i compiti ideali dell’esistenza umana, la nozione di bene e male. Freud e Marx in primo luo-go, ma anche Rousseau riletto in chiave neo-freudiana, costituiscono le fonti origi-narie di questo complesso di rappresentazioni interrelate. Detto in estrema sintesi, si è sviluppata una visione di infanzia che suppone l’età evolutiva come identica all’età adulta (e l’età adulta sempre come positivamente “evolutiva” essa stessa). Giacché la natura umana si suppone intrinsecamente buona e positiva di per sé, e quindi come sola possibile fonte dell’etica, la libertà si riconosce come presente e sviluppata in ogni soggetto umano (nel bambino come nell’adulto), e la si identifi-ca con la spontaneità vitale del soggetto. Riletta in questa ottica, la metafora plato-nica della città interiore verrebbe interpretata come una dimostrazione della volontà subdola e prevaricante della generazione adulta, che mira a trasferire all’interno della psiche infantile i propri modelli e le proprie regole di condotta, conculcan-done la libertà e creatività originaria per riprodurre se stessa. In questa prospettiva l’infanzia dovrebbe essere pertanto “liberata” dalla sopraffazione, dal controllo, dai condizionamenti, che ogni società storica avrebbe di fatto introdotto nel singolo per mezzo di azioni definite “educative”. In conseguenza dell’affermarsi generalizzato di questa concezione, l’idea stessa di educazione, ridotta a prevaricazione condizionante, viene negata, ed essa è oggi sparita di fatto dall’immaginario sociale, cancellando con sé anche qualsiasi idea di responsabilità educativa adulta. Giacché l’autorità sembra identificata con la preva-ricazione, nessun adulto vuol più essere (o apparire) “autoritario”. Il genitore si sente chiamato a garantire piuttosto la “felicità” del figlio amato, offrendo le cure materiali, gli oggetti, le conoscenze necessarie ad una vita presente e futura “felice” e da subito “libera” (come abbiamo già detto, in questa visione spontaneità e libertà si identificano). L’enfasi sulla società “conviviale”, il rivendicato primato dell’“or-dine materno” per costruire una società “senza padri né maestri” (tutti termini chiave della contestazione degli anni Sessanta/Settanta del Novecento), hanno ef-fettivamente scardinato un ordine simbolico che determinava complessi esiti educativi , e che era essenziale per le identità personali (di uomini e donne). Al-meno due generazioni degli attuali genitori sono cresciuti dentro un orizzonte come quello che ho appena descritto, e ciò comporta che per moltissimi fra loro l’espe-rienza vissuta da figli non sia più comparabile a quelle vissuta dalle generazioni più anziane ancora viventi. Significa che concretamente l’idea di educazione come costruzione orientata al futuro semplicemente non esiste più. In altre parole, non avendo mai lavorato per generare “la città interiore” della metafora platonica, con il suo “custode governatore” interno, né la generazione adulta può esercitare un controllo etico sulle condotte della generazione adolescenziale e giovanile, né que-sta può esercitarlo su se stessa (smarrimento e insicurezza personale sono l’inevi-tabile conseguenza di tale auto percezione: l’insicurezza non è compatibile con la felicità umana). Il dato più grave è che la forma dell’umanità viene mediata nella relazione, e tale mediazione richiede il lungo tempo dell’età evolutiva: genitori personalmente insicuri non offrono supporto ai processi di identificazione dei loro figli; non for-niscono regole e significati definiti con cui confrontarsi (o a cui ribellarsi), e viene meno così, per il figlio, un orizzonte di senso in cui proiettarsi e progettarsi (o da rifiutare). Tutto è possibile, tutto è equivalente, tutto è negoziabile. L’insicurezza viene accresciuta da ulteriori trasformazioni della famiglia contemporanea. Per esempio la denatalità, che accresce il numero dei figli unici: su questi si riversano l’investimento affettivo e le aspettative di almeno sei adulti (se tutti i nonni sono vivi), e, oltre un certo limite , questo investimento può generare esso stesso la fragilità dell’Io in crescita (che si vive come inadeguato a corrispondere alle attese di quelli che ama). Per contro l’assenza di fratelli, ma anche di cugini, riduce le possibilità di un’esperienza sociale precoce fra pari, che avrebbe fortemente soste-nuto lo sviluppo dell’Io infantile . E quando la coppia genitoriale si separa (cir-costanza sempre più frequente, e che certamente accresce l’insicurezza affettiva dei figli come degli stessi genitori), il conflitto coniugale, il timore di “perdere” il fi-glio, sotterranei sensi di colpa, modificano ulteriormente le relazioni genitori figli in termini di “ricatto affettivo”, o in forme di “compra-vendita” emozionale. Incontriamo dunque figli sempre meno controllati, sempre più viziati, sempre più fragili, anche quando iper-protetti in ogni senso (e forse proprio per questo) : ma le presenze adulte, anche se iper-protettive, si fanno sempre meno significative, dal punto di vista della relazione educativa; sembrano incapaci di offrire sostegno e sicurezza, sia in termini affettivi sia in dimensioni culturali e intellettuali. Molti ge-nitori, anziché proporre e offrire ai loro figli un “senso” della vita, tendono a trova-re nei figli una ragione di vita per se stessi. Non possono allora “perdere” i figli, non possono spingerli verso una tranquilla autonomia, non sono dunque in grado di “accompagnare” i loro figli in quel “viaggio iniziatico” per il quale si diventa adulti verificando la propria esperienza umana iniziale, combattendo il male (o almeno quello creduto tale) e affermando il bene in cui si spera. I legami familiari, dunque, si indeboliscono precocemente già nel corso dell’età evolutiva, nonostante il per-durare di affetti ed emozioni viscerali, caratterizzati da dipendenza affettiva reci-proca e quindi da inevitabile conflittualità. L’influenza educativa dei genitori cede di fronte a legami sentimentali e amicali precoci, nell’ambito del gruppo dei coeta-nei, cui di fatto l’adolescente chiede appartenenza per guadagnare sicurezza perso-nale. Socialità e sessualità Il gruppo dei coetanei è sempre stato un ambito relazionale importante, per tutte le generazioni, ed ha sempre avuto significatività educativa per adolescenti e giova-ni, ma si potrebbe ipotizzare che oggi già i preadolescenti cerchino di appagare in esso, in termini compensativi, bisogni educativi cui la famiglia d’origine non ha da-to risposta adeguata. Anche i precoci legami sentimentali e sessuali fra adolescenti e giovanissimi, proprio se divengono stabili, sembrano rispondere non più alla logi-ca tipicamente adulta della scelta di un partner per costruire un futuro comune, ma piuttosto alla logica del reciproco sostegno per crescere (e perfino per “soprav-vivere alla propria adolescenza”). La socialità fra pari e la vita sessuale precedono dunque, per queste generazioni, il costituirsi di quel sotterraneo confine che se-gnava la soglia dell’autonomia personale (che abbiamo individuato con le parole chiave scelta e decisione). Anzi sembra che la non-scelta (il rinvio indefinito della scelta) costituisca un elemento distintivo di queste generazioni, rinvio spesso teo-rizzato come rivendicazione di una pluralità di possibilità cui non si intende rinun-ciare, identificate a loro volta con una presunta “autorealizzazione” personale. È quasi ovvio sottolineare che, dal momento che la sessualità costituisce il cuo-re della nostra socialità, la sessualità precoce interviene presumibilmente nel defi-nire la stabilizzazione delle capacità sociali dei giovani in termini ancora non ade-guatamente studiati. E ciò si somma all’effetto che i gruppi stessi dei coetanei, con le loro dinamiche interne, hanno sulla capacità sociale in fieri di ciascuno dei loro componenti. Una tendenziale sopravvalutazione dell’amicizia come valore sembra documentabile da varie fonti empiriche: ma l’amicizia sembra vissuta in termini “sentimentali”, possessivi e totalizzanti. Può essere significativo che, nell’indicare le scelte per il tempo libero, molti adolescenti sottolineino non tanto il luogo o l’attività, ma piuttosto il con chi (“con gli amici”). Il gruppo dunque non si definisce e costruisce tanto in relazione ad una attività scelta (per esempio lo sport), o all’interesse e la passione per un oggetto culturale (musica, cinema, teatro), e meno che mai rispetto ad un “progetto di esistenza con-diviso” (come nel caso dell’associazionismo giovanile di matrice politica o religio-sa, oggi in progressiva consistente riduzione). Non è neppure importante il luogo materiale: il muretto, la strada, la discoteca, il rave diventano, o possono diventare, luoghi relazionali significativi. E tuttavia anche simili “luoghi relazionali” si pre-sentano caratterizzati da rapida mutevolezza e occasionalità: proprio per lo stile di vita adultistico di cui abbiamo già detto, esiste una maggiore e crescente mobilità degli adolescenti e dei giovani negli ultimi decenni: raggiungono luoghi molto più lontani da casa grazie ai mezzi meccanici, a partire dai ciclomotori, posseduti sem-pre in maggior numero e sempre più precocemente, e poi alle moto e alle vetture; grazie ai mezzi meccanici, adolescenti e giovani stanno fuori casa sempre più spes-so, sempre più a lungo, e fanno sempre più tardi. Dobbiamo ipotizzare che il mezzo meccanico in sé diventi occasione di aggregazione sociale ed entri nella costruzio-ne del gruppo dei coetanei: ci si muove insieme, si gareggia materialmente e ideal-mente… e insieme si muore sempre più spesso…. In sintesi, ad un sempre più ridotto o inesistente controllo sociale della genera-zione adulta si accompagna il configurarsi di nuovi “luoghi”, materiali e relazio-nali, certamente non definiti da una intenzionalità educativa, ma che diventano ine-vitabilmente “luoghi di educazione” (che ci piaccia o no). Di fatto una discoteca (cui si accede anche di pomeriggio) materializza una metafora potente della realtà e della socialità umana, i cui elementi sono tutti da studiare, dal punto di vista pe-dagogico. Si prenda ad esempio la danza di gruppo, in cui il corpo, spogliato o coperto secondo le mode, viene “esibito” alla distanza, mentre potenziali partner sentimentali e sessuali ne costituiscono il “pubblico” da stimolare, e si confronti questa modalità “esibitoria” con quella, tradizionale (non meno esibitoria), che pre-vedeva invece la necessità di sincronizzare nella danza i propri movimenti con quelli di un singolo partner, toccandone il corpo (e nel frattempo di fare anche conversazione con lui/lei). La logica di seduzione utilizzata in queste due forme di danza collettiva interviene quindi sulla socialità profonda dei giovani soggetti, at-traverso la “dimensione tacita” di Polanyi, e va a costituire una sorte di curricolo sociale latente. Se un tempo la danza (in genere inserita nel contesto della “festa”, ambito di forte appartenenza sociale di per sé) costituiva per i giovani uno spazio di incontro con partner potenziali, un luogo di dialogo e conoscenza reciproca, di corteg-giamento, ma anche di messa alla prova e di riconoscimento della propria identità sociale, oggi si può osservare la teorizzazione aperta della necessità dello “sballo”, come condizione di socialità in questi luoghi (che si tratti di droghe, di alcool o di micidiali mixer di entrambe le cose). La danza, e la musica con cui ci si stordisce, entrano esse stesse nella dimensione dello “sballo”, vale a dire nella costruzione di una forma di appartenenza sociale transitoria che, in virtù della parziale perdita di coscienza, o comunque dell’alterazione degli stati psichici, determina identifi-cazione emozionale, fusione psichica con il gruppo. Si potrebbe osservare che se un tempo l’adolescente cercava se stesso mettendosi alla prova attraverso l’incon-tro con i coetanei, oggi egli cerchi piuttosto di “dimenticarsi” di se stesso, e di con-fondersi in una entità superindividuale. Questa situazione non può essere irrile-vante per il processo educativo personale: potremmo azzardare che si tratti di una generazione che non ha mai vinto la paura di stare di fronte e se stessi, alla propria intima solitudine. Purtroppo la capacità di sostenere psichicamente la solitudine è la reale precondizione dell’incontro, affettivo e amicale, e forse è anche la con-dizione psicologica dell’esperienza religiosa. Discorso che qui non possiamo af-frontare . Osserviamo però che la cultura dello sballo appare connessa in termini interattivi con la dimensione della “virtualità” dell’esperienza che sembra contrad-distinguere le nuove generazioni. L’esperienza virtuale nello sviluppo del realismo dell’Io Il secondo elemento chiave che - a mio parere - contrassegna oggi l’esperienza infantile e adolescenziale è l’espansione tendenziale e generalizzata della virtualità. Legata sul piano materiale alla dilatazione della comunicazione di massa in canali sempre più sofisticati e onnipresenti, la spinta generalizzata all’esperienza virtuale accompagna i fenomeni di adultismo, interviene presumibilmente nello sviluppo della socialità, e in generale potrebbe intervenire negativamente sul reali-smo dell’Io, prolungando alcune caratteristiche della ludicità e mitizzazione fan-tastica proprie dell’infanzia, in termini non funzionali al rafforzamento dell’Io. Il sistema attuale della comunicazione di massa, in tutte le sue versioni, dal cinema ai canali televisivi, e soprattutto alle reti internet (oggi divenute, almeno per le generazioni più giovani, la via di accesso più importante anche per i film, la fic-tion in genere e la stessa musica) sembra presentare anche una frammentazione strutturale, una eterogeneità estrema e dispersiva. In realtà, al di là della sua effettiva frammentazione, generata anche dalle sue smisurate dimensioni quantitative, il sistema mass-mediatico ha generato un oriz-zonte socio-culturale complessivamente unitario, dotato anche di forti elementi trasversali di sintesi: le “grandi narrazioni”, le mitologie sociali proprie delle cul-ture sono state tutte sostituite da nuove narrazioni unificate, in cui anche elementi culturali contaminati - come i cartoni giapponesi - mediano però modelli di condot-ta maschili e femminili molto più simili, in termini simbolici, di quanto non faccia percepire la ricchezza delle loro figurazioni. Inutile ribadire che oggi è il sistema mass-mediatico complessivamente inteso a mediare il modello adultistico, con le correlate negazioni dell’infanzia e dell’educazione, con una incomprensione nega-trice della vecchiaia, con un’enfasi superficiale e generalizzata sulla libertà perso-nale e la negazione di ogni normatività e controllo sociale istituzionale. La socialità mediatica è strutturalmente esibitoria: l’esistenza diventa visibilità. “Appaio (in televisione, su facebook, sulla stampa), dunque esisto”. Ed ogni stra-tegia sembra pagante se attrae e concentra l’attenzione sull’Io che si esibisce, da parte di un pubblico (presente o virtuale). Da ciò il successo di reality e talk show, che a loro volta mediano modelli di condotta aggressivamente vincenti (e normal-mente falsificati). La forza e ampiezza della comunicazione mass-mediatica, e il canale virtuale attraverso cui essa penetra in ogni microambiente, è tale da oltrepassare tutte le possibili mediazioni dei gruppi primari e comunque degli ambienti relazionali con-creti. E sfugge alla percezione comune, soprattutto dei giovani, che anche il siste-ma mass-mediatico è in realtà un sistema di mediazioni culturali (e non una finestra aperta sulla “realtà” del mondo esterno). Quest’ultimo elemento costituisce una novità assoluta nella storia umana, nella quale i gruppi primari hanno sempre mediato, “filtrandolo”, l’orizzonte culturale circostante, svolgendo così una funzione di controllo, ma anche di protezione, delle generazioni più giovani. Oggi può accadere viceversa che sia l’orizzonte mediatico a conferire significato alle relazioni familiari e comunque ai gruppi primari di ap-partenenza: anche la scuola quindi, e gli ambiti ecclesiali, vengono ridefiniti da fic-tion accattivanti, in cui preti, suore, o professoresse di italiano, operano soprattutto da investigatori (di incredibile successo). Anche a prescindere dai contenuti culturali mediati dalle reti, in termini di qua-lità e valore, la virtualità costituisce una forma di esperienza cognitiva ed emozio-nale con proprie caratteristiche. Dietro la sua apparente immediatezza e concretez-za (vedo, sento, interagisco) la virtualità è anche una falsificazione dell’esperienza concreta, data la sua dimensione, per un verso ludica, e spesso decisamente il-lusoria: solo nel gioco l’avversario ucciso ritorna in vita. E la crescente tendenza a instaurare relazioni via internet, in chat in cui è possibile nascondere la propria reale identità, l’età, il sesso, la posizione sociale; perfino la crescita di giochi in cui si entra con un’identità deliberatamente simulata, l’avatar (e talvolta si costrui-scono amicizie a partire da questi incontri), fanno pensare ad una sorta di muta-zione antropologica. Ogni esperienza virtuale comporta di fatto un uso parziale del proprio corpo, spesso una postura prolungata in termini poco funzionali, un tempo lunghissimo investito in queste attività, che nell’età evolutiva viene sottratto a compiti di sviluppo psico-fisico specifici. La virtualità sembra eliminare la soli-tudine, fornendo un illusorio senso di dialogo e di compagnia, che però i giovani soggetti non sembrano più capaci di sperimentare in presenza fisica. La virtualità spalanca mondi lontani e scavalca, almeno apparentemente, ogni difficoltà d’ordine materiale che essi dovremmo affrontare nel quotidiano. Non sembra che essa aiuti lo sviluppo del realismo dell’Io, ma che piuttosto ne accentui la dimensione infan-tilmente ludica. In molti sciagurati episodi di bullismo e di delinquenza giovanile, sembra divenuta tipica la giustificazione: “Volevamo fare uno scherzo”. Ma è an-cora più grave la espressione: “Volevamo provare un’emozione forte”, verbaliz-zazione che riposiziona nella cultura dello “sballo” anche il desiderio di infliggere dolore, umiliazione e morte ad un altro essere umano. In questa nostra riflessione non è in questione l’enorme positiva valenza di queste tecnologie comunicative nella nostra vita: sarebbe tuttavia da monitorare continuamente che cosa davvero bambini e ragazzi utilizzano di questo enorme po-tenziale, perché di fatto ciascuno di noi cerca e utilizza solo ciò che è in grado di percepire come interessante ed utile (né più ne meno come accadeva con libri e giornali); ma al contempo ciascuno di noi “subisce” almeno parzialmente ciò che è immediatamente disponibile, e che “gli capita sotto il mouse”. La spinta alla virtualità è comunque accentuata da tutto il nostro stile di vita: in molte case esiste un televisore per ogni componente della famiglia, e i bambini hanno il loro nella loro camera. Si osservi come, l’impossibilità presunta di patteg-giare la decisione sul “che cosa vedere” fornisca un presupposto negativo alla so-cialità già nel nucleo familiare . Per non dire che ciò impedisce la condivisione e il commento del prodotto visionato, quale che esso sia, fra adulti e bambini. Come dire: si riduce la possibilità di dialogo intra-familiare e si nega agli adulti qualsiasi possibilità di mediazione rispetto al contenuto culturale (e quindi etico e politico) del prodotto fruito. Naturalmente la spinta alla virtualità è accentuata dalla disponibilità economica, e da un mercato di prodotti di questo genere, dal film a noleggio ai canali televisivi a pagamento. Oltre alle chat, i blog e tutto l’apparato ludico espressivo ricavabile da internet, si osservi che la ricchezza di queste possibilità è sempre riferita ad una fruizione individuale, ad una illimitata libertà di scelta secondo il capriccio mo-mentaneo del singolo: in questo caso la “dimensione implicita” del messaggio è che il bene del singolo (e dunque il suo diritto) sia la fruizione solitaria, secondo le proprie personali inclinazioni (per definizione tutte lecite), senza interferenze o di-sturbi da parte di nessun altro. Nell’età adulta, il delirio infantile da telecomando, che permetteva di azzerare e ammutolire qualsiasi altro virtuale secondo il capric-cio del momento, in quale forma aggressiva si realizzerà? Vorrei aggiungere, in termini provvisoriamente conclusivi, che è il quadro cul-turale che ho appena delineato ad aggravare fenomeni specifici ed ulteriori (cer-tamente importanti) che segnano la nostra epoca, per esempio la presenza di gruppi di immigrazione, che presentano caratteri culturali e religiosi oggettivamente “al-tri” e “diversi”. La multiculturalità è di fatto un elemento sociale destabilizzante, cui in passato ogni sistema socioculturale ha opposto strategie di integrazione (e anche di contaminazione) culturale lente e stratificate. Quanto al confronto inter-religioso, esso assume un senso diverso fra due o più esperienze religiose vitali: ma l’Occidente contemporaneo, segnato dalle rappresentazioni di cui ho già parlato con riferimento all’educazione, è anche dominato da un razionalismo scientista e laicista che ha negato la religiosità, o l’ha ridotta a superstizione irrazionale, fra-gilità emotiva, illusione. La religione è rivendicata e riconosciuta per gli “altri”. Del resto, la sparizione dell’educazione in quanto tale dalle nostre rappresentazioni non poteva non indebolire l’educazione religiosa , e ciò è accaduto di fatto anche nel mondo cattolico. La giovinezza come stadio formativo Paradossalmente, all’anticipazione delle condotte adulte fino al confine dell’in-fanzia, si accompagna oggi una tendenza a trovare nella giovinezza una fase ul-teriore, una stagione prolungata del processo educativo. Questo fenomeno è certamente connesso al prolungamento degli studi secondari e all’estensione della frequenza universitaria e, per il verso opposto, a un ingresso sempre più tardivo nel lavoro, alla sparizione di forme di apprendistato antecedenti ai sedici/diciotto anni. Un tempo l’apprendistato, anche nelle sue versioni informali, costituiva un luogo visibile e riconosciuto di formazione e di socializzazione (nel bene come nel male). Accanto al primo inserimento nel mondo del lavoro, un tempo avremmo indivi-duato l’Università, come ambiente formativo, per una parte della popolazione gio-vanile. L’accesso al lavoro e l’ingresso all’università segnavano specifici ambienti formativi. Per i giovani maschi c’era anche il servizio militare. Ne risultava che le comitive giovanili (e quindi lo spazio del “tempo libero”) si costituissero in diretta derivazione di questi “luoghi” (lavoro e Università), segnando, all’inizio della gio-vinezza, un ampliamento effettivo delle reciproche conoscenze (ampliamento ri-spetto alle frequentazioni di derivazione familiare e al contesto dei compagni di scuola). Nello stesso tempo le comitive giovanili si “specializzavano”: compagni di studi universitari, compagni di lavoro, talvolta compagni di squadra, ma soprattutto compagni di militanza ideale, diventavano di fatto i compagni del “tempo libero”, e l’influenza delle comitive giovanili, intese come luoghi relazionali, si attestava maggiormente fra i 18 e i 20 anni, accompagnando così l’ingresso nell’età adulta. Nel passaggio fra la tarda adolescenza e la prima età adulta, la pedagogia attribuiva importanza ai compagni di “militanza ideale” (quale che essa fosse). Ad esempio, con l’accesso all’università (che coincideva spesso con la vita in una città lontana e diversa da quella d’origine) le nuove frequentazioni ampliavano l’orizzonte sociale e culturale, e permettevano alla persona giovane di cambiare posizione sociale all’interno di un nuovo gruppo di riferimento (cioè di sperimentare le proprie nuo-ve potenzialità relazionali avendo mutato il contesto sociale). I compagni di univer-sità e i compagni di militanza (che per la mia generazione sono tuttora gli inos-sidabili amici della giovinezza) si sceglievano reciprocamente dentro un contesto significante. Oggi gli studi sociologici attestano una crisi generalizzata dell’associazionismo giovanile. I giovani “stanno insieme senza un progetto”, in termini di amicizia co-me di relazione sentimentale e sessuale. La condivisione sociale è fortemente emozionale, frammentata, mutevole. Per la giovinezza, l’unico luogo relazionale che sembra permanere è l’appar-tamento condiviso, da studenti universitari e da giovani lavoratori, che viene a co-stituire una sorta di “comune giovanile”: in quanto spazio di condivisione materiale della vita (non priva di difficoltà) l’appartamento/ comune permette di sperimen-tare forme di socialità nuova, ma a cui - naturalmente - manca il progetto (esi-stenziale, oltre che pedagogico). La pubblicità di prodotti alimentari e di pulizia evidenzia una mutazione della composizione dei nuclei abitativi, evidentemente già studiata per finalità di mercato (perfino Barilla ha introdotto gli “amici” come fa-miglia allargata nella sua pubblicità più recente). Per un altro verso, queste ultime generazioni giovani tendono invece a conser-vare rapporti di amicizia che risalgono all’infanzia, favoriti in ciò da una prassi scolastica che tende a conservare i gruppi classe, in ossequio a un supposto valore di “continuità”. Le forme della socialità possibile rischiano così di irrigidirsi sullo schema della posizione sociale inizialmente assunta in un gruppo di coetanei di ri-ferimento (e ogni irrigidimento è dannoso per definizione). Nel quadro generale della presente condizione, l’ingresso nel lavoro per i giova-ni viene talmente ritardato da non poter essere più assunto fra i luoghi educativi, (anche se si moltiplicano occasioni di socialità per lavori precari, saltuari, diversi-ficati fin dall’adolescenza). L’espansione della frequenza universitaria sembrerebbe ridisegnare l’università come luogo formativo, ma anche questo incontra di fatto forti limitazioni (frequenza virtuale e abbandono anticipato di moltissimi iscritti; per il verso opposto classi troppo affollate per favorire relazioni stabili fra docenti e discenti e degli studenti fra loro). Di fronte agli elementi esaminati fin qui, e pur non avendo affatto esaurito il quadro dell’attuale situazione sociale, ci sembra che i tratti definitori di una “emer-genza educativa” divengano più precisi: l’emergenza è data dalla sparizione del-l’educazione, di qualsiasi forma di educazione, e la sparizione dell’educazione deriva da rappresentazioni e concetti in larga parte falsificanti o riduttivi, e dallo sviluppo di uno stile di vita alimentato e controllato soprattutto da logiche di mer-cato (nel senso più ampio del termine). Sono ben consapevole che questa pagine mi collocheranno, agli occhi di molti, nel numero degli “apocalittici”, ma correrò questo rischio. Il lavoro del ricercatore, e la sua responsabilità sociale, consistono in primo luogo nel sollecitare attenzione e riflessione sui problemi comuni. Per un pedagogista non si tratta di trovare nuove infallibili strategie per risolvere le emergenze, o nuove potenti tecniche didattiche, magari sostenute dall’informatica: se l’educazione è costruzione di umanità, la do-manda centrale su cui interrogarsi è sempre “quale” umanità stiamo costruendo? Ed è proprio questo che volevamo fare? E possiamo ancora riprogettare l’umanità da costruire? Ci sono ancora “città interiori” da costruire, e città da riedificare, anche per que-sta generazione, prima che “forse il mondo intero si smarrisca con auto potentis-sime su strade secondarie?”

RIASSUNTO Il saggio contiene in premessa una definizione dell’educazione, analizzata nella sua fenomenologia, come un processo interattivo fra un soggetto in età evolutiva e un certo nu-mero di adulti, che si compie sempre in un orizzonte socioculturale e ha come termine e scopo il raggiungimento di una soglia di autonomia personale nelle forme progettate da una socio cultura di riferimento. La natura delle mediazioni attraverso cui il soggetto immaturo viene a contatto con l’orizzonte culturale è considerato dall’A. “importante quanto l’oriz-zonte stesso”. Alla luce della definizione di educazione, l’A. individua i termini di una possibile “mu-tazione antropologica” (piuttosto che di una “emergenza educativa”) nella diffusione ge-neralizzata di uno stile di vita “adultistico”, entro il quale bambini e adolescenti vengono trattati, e si comportano, come se fossero già adulti. La mobilità accelerata, la sessualità precoce, la dilatata funzione assunta dal gruppo dei coetanei in sostituzione dell’ambiente familiare, e infine la moltiplicazione delle esperienze virtuali, fanno sospettare uno sviluppo della socialità infantile e adolescenziale in direzioni incontrollate, non ancora adeguata-mente studiate, e per molti versi preoccupanti.

SUMMARY This paper analyses education’s phenomenology, defining it as an interactive process between a child and some adults. The specific educational relation ever happens in a social and cultural horizon, and the process finds his end (and aim) when the child becomes per-sonally autonomous, even in the specific form of every culture. So, the mediate form by means whom the child meet his culture is so important as the same culture. In this perspective, the A. defines as “anthropological alteration” some elements depen-ding of our life style: a great mobility of young people, a premature sexual activity, an in-creasing educational role by peer groups, and, over of all, the extension of digital and vir-tual experiences, depending on the use of internet. In the author’s opinion, these element make, today, an effective change in sociality of young people.

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