GUERRIERI ROSANNA* , BORDONE ANDREA**
ASPETTI PSICOLOGICI DEL SUICIDIO
Gli studiosi contemporanei del suicidio sono convinti che non esiste una strut-tura di personalità ed una specifica psicodinamica connessa al suicidio. Viene data molta importanza alla disperazione, che non è specifica della depres-sione. Essa infatti può essere associata a molte altre forme di psicopatologia (ansia, schizofrenia, malattie organiche). Questo fattore può essere studiato con la Beck Hopelessness Scale, uno stru-mento di autovalutazione a venti voci, che accerta le aspettative negative di una persona circa il futuro (Beck e Steer, 1988). In uno studio prospettico su 1958 pazienti ambulatoriali, Beck ed al. (1990) hanno rilevato che la disperazione è altamente correlata ad un eventuale suicidio. Oltre alla disperazione, Hendin (1991) ha identificato nella desolazione, un altro fattore decisivo. La desolazione implica l’aspettativa di un cambiamento associato alla certezza di non poterlo realizzare. Anche il senso di colpa è considerato una delle componenti affettive della desolazione. In uno studio su veterani del Vietnam, affetti da disturbo post-traumatico da stress, è stato rilevato un alto tasso di senso di colpa tra coloro che adottavano comportamenti suicidi. Questo senso di colpa, che potrebbe accomunare anche soggetti affetti da depressione, deriva dall’odio verso se stessi, dal bisogno di punizione sia per essere sopravvissuti sia per le azioni commesse in guerra. Aggressione e violenza sono importanti per capire il suicidio. La prima impor-tante intuizione psicologica di tale assunto fu di S. Freud. Egli descrisse solo un caso di tentato suicidio; ma vide molti soggetti depressi. Nel suo lavoro “Lutto e Melanconia” affermò che i meccanismi psicodinamici sono quelli di ambivalenza nei confronti degli oggetti d’amore di tipo narcisistico, di identificazione con l’oggetto amato-odiato nel tentativo di riparare la sua perdita vissuta come intol-lerabile ed infine di aggressione distruttiva dell’oggetto introiettato. Il suicidio esprime quindi un’aggressione contro una persona amata con la quale l’individuo si è identificato e costituisce così un omicidio mancato. Identica è la concezione di Sullivan, che considera il suicidio come una disgrazia casuale: “Una certa persona che ebbe un’influenza distruttiva nel passato del paziente è il vero obiettivo dell’autodistruzione”. M. Klein (1978) parla di persecutore, identificato con il Super-Io, a sua volta contaminato dagli oggetti cattivi introiettati. Chi si uccide esprime contemporanea-mente il desiderio di punire sia l’oggetto amato e perduto sia se stesso per avere in qualche modo “causato” tale perdita. Adler concepisce l’autosoppressione come una reazione di difesa supercompen-satrice del complesso di inferiorità. Al pari della fuga o della lotta, della collera o della paura, il suicidio rappresenta una difesa da situazioni psicologiche penose, rappresentate da una svalutazione dell’Io sotto l’aspetto fisico, morale e sociale. Musatti considera l’autoaggressività l’elemento masochistico costitutivo della melanconia, che dal terreno puramente psichico si trasferisce in quello fisico fino al suicidio. Egli prospetta due meccanismi psicogenetici. Il primo è caratterizzato dalla perdita dell’oggetto amato e dallo squilibrio, che si viene a creare per l’impossibilità di abbandonare l’investimento libidico che l’oggetto rappresenta. Ne consegue l’identificazione del soggetto con l’oggetto amato e l’eliminazione di esso con l’autosoppressione. Il secondo è caratterizzato dall’incapacità da parte di un soggetto particolarmente debole di affrontare la realtà esterna con conversione dell’eteroaggressione in autoaggressione ed auto soppressione come forma di liberazione. Fornari valorizza nella causa-azione dell’atto suicida le ansie di tipo depressivo per la perdita dell’oggetto di amore ove il suicidio sarebbe un disperato tentativo di riaffermare il rapporto con l’oggetto perso. Anche Fenichel (1945) nota come “il suicidio possa essere il soddisfacimento di un desiderio di ricongiungimento all’oggetto amato perduto oppure un unione nar-cisistica con un’amata figura superegoica”. Ciò spiegherebbe alcuni dati statistici, che vedono una correlazione tra il suicidio e l’anniversario della morte di una persona cara. “Quando l’autostima e l’integrità di sé di una persona dipendono dall’attaccamento di un oggetto perduto, il suicidio può apparire come l’unica via per stabilire la coesione del sé” (Gabbard, 2002). Karl Menninger, in “Uomo contro se stesso”, considera il suicidio un assassinio retroflesso, un omicidio invertito, conseguente alla rabbia del paziente verso un’al-tra persona introiettata od utilizzata come scusa per una punizione. Egli descrive un istinto di morte diretto verso se stessi e tre componenti di ostilità: il desiderio di uccidere, di essere uccisi e di morire. Zilboorg vede nel gesto autodistruttivo una forte ostilità inconscia ed una per-dita della capacità di amare gli altri. Stengel coglie nel suicidio, oltre alle componenti aggressive, altre motivazioni non distruttive ed in particolare il desiderio di incidere sui sentimenti delle altre persone. Sottolinea quindi la funzione di appello dell’atto suicida. G. Deshaies, nella sua opera “Psicologia del suicidio” (1951) ritiene che fattori psicologici devono integrarsi con fattori sociali e fisici per determinare il suicidio. La condizione suicida scaturirebbe da una struttura psichica particolare in grado di erompere sotto la spinta di stimoli personali ed ambientali. Descrive sei fenome-niche: il suicidio difensivo per una situazione intollerabile, il suicidio autopunitivo per un sentimento di colpa, il suicidio autoaggressivo per la interiorizzazione di un atto aggressivo, il suicidio oblativo per atto sacrificale, il suicidio ludico per suggestione, il suicidio tanatologico per istinto di morte. Gli sviluppi teorici ulteriori attraverso la psicologia del sé hanno spostato l’at-tenzione sulle vicissitudini dell’Io e sulla perdita dell’autostima. La vulnerabilità al suicidio è parsa legata alla difficoltà a mantenere l’autostima a livelli accettabili in assenza di oggetti-Sé (Kohut, 1977), che garantiscono introiezioni tranquillizzanti. L’oggetto-Sé è un sostituto precursore di strutture psicologiche non ancora esi-stenti. La perdita di un tale oggetto esterno-interno può costituire un chiaro fattore di rischio. Pare che esista una differenza nell’ambito del funzionamento dell’Io e delle re-lazioni oggettuali tra coloro che hanno fatto tentativi seri di suicidio e coloro che hanno agito per ottenere l’attenzione di un altro significativo. Coloro che tentano seriamente presentano incapacità a rinunciare a desideri infantili di nutrimento e conflitto riguardo i propri bisogni di dipendenza, una visione ambivalente della morte, aspettative elevate su se stessi ed ipercontrollo dell’aggressività. Studi recenti dimostrano come la rabbia abbia un valore importante nel suicidio (Hendin, 1991). Hapter ed al. (1991) hanno studiato il rischio di suicidio in pazienti con storie di comportamenti violenti ed in soggetti senza storie di violenza, eviden-ziando che, mentre entrambi i gruppi hanno correlati simili in relazione a rabbia, paura, ansia e deficit del controllo degli impulsi, si ritrova la correlazione tristezza-rischio di suicidio solo nei pazienti non violenti. Hendin (1991) ha rivisto alcuni dei significati, che comunemente vengono at-tribuiti a pazienti che si uccidono: morte come riunione, rinascita, abbandono puni-tivo, vendetta, autopunizione. Il suicidio come vendetta si può correlare alla visione freudiana del desiderio inconscio di uccidere l’oggetto perduto, visto in modo am-bivalente. Rabbia inconscia ed impulso omicida si osservano come bisogno di re-denzione ed allora il suicidio serve sia da vendetta che da espiazione. Il suicidio come abbandono punitivo può essere osservato in soggetti, che tengono sempre a disposizione i mezzi per farlo anche se non lo tentano mai. La fantasia della rina-scita è correlata con l’identificazione dell’oggetto perduto. Vergogna ed umilia-zione sono altri due fattori, che possono essere alla base del suicidio. Da non dimenticare anche i fattori stressanti correlati alle diverse fasi evolutive del ciclo di vita. James Hillman in “Il suicidio e l’anima” (trad. it. Astrolabio, 1999) pone il sui-cidio in rapporto con la morte e con l’anima e considera gli aspetti basati sulla società, sulla legge, sulla Chiesa e sulla vita, come permeati dalla paura che tale gesto comporta ed inutili per la pratica analitica. Il suicidio come possibilità umana rivela l’indipendenza della psiche ed il suo significato è prettamente individuale. Per comprendere questo significato è neces-saria l’apertura verso la morte, l’immedesimazione, la conoscenza intima. Le spiegazioni o la cosiddetta autopsia psicologica effettuata a posteriori pos-sono essere utili solo ai fini classificativi e preventivi, poiché “una ricerca, che non dia piena rilevanza alla mitologia interna dell’individuo suicida, darà sempre un quadro inadeguato”. Il suicidio quale via per entrare nella morte esprime le fantasie più profonde dell’anima. La comprensione richiede un’attenta conoscenza della situazione cosciente e del rapporto che questa ha con i processi oggettivi nell’inconscio. Tale conoscenza non è altro che l’esperienza della morte, lo sfondo archetipico della morte, così “come viene incontrata nell’anima”. Rifiutando l’esperienza della morte, rendiamo incompiuta la nostra vita. Infatti, “l’impulso alla morte può essere la richiesta di un incontro con la realtà assoluta, una richiesta di vita più piena per mezzo dell’espe-rienza della morte”. Hillman ritiene che le possibilità di suicidio crescono con lo sviluppo dell’in-dividualità. Infatti le persone, che non si lasciano trasportare dalla collettività, sperimentano più delle altre la morte come valida alternativa, poiché la scoperta dell’individualità richiede coraggio. L’individuo coraggioso sceglie di vivere e di essere se stesso, conoscendo realmente ciò che egli è. A questo proposito Hillmann fa riferimento a quelle personalità creative, sensoriali o schizoidi, che scelgono di uccidersi perché hanno una più forte intuizione di se stessi. Durante la vita l’anima incontra più volte l’esperienza di morte e, quando si è vicini alla morte, può produrre immagini di indistruttibilità, di sopravvivenza alla morte stessa. L’anima utilizza l’esperienza della morte per la trasformazione: è un tentativo per entrare in un altro livello, per passare “dal divenire all’essere”. Ed al-lora il suicidio può essere considerato come un “tentativo di passare a forza da un regno all’altro attraverso la morte … la lotta dell’anima con il paradosso di tutti gli opposti”. La morte fisica rappresenta una trasformazione completa, un modo per incon-trare il regno dell’anima, consono all’idea individuale della stessa. Le richieste di trasformazione della psiche possono essere le più diversificate dal punto di vista simbolico, ma solo il suicidio può consentire una trasformazione radicale e completa, rappresentando il simbolo di un anima, “che non procede di pari passo con la vita o di una vita che non nutre più un anima affamata”. L’esperienza della morte, che emerge da una immagine o da una fantasia suicida, svela che l’Io del-l’individuo si sta avvicinando alla fine e che la psiche esige una trasformazione. Conseguentemente la crisi suicida appare utile per la vita dell’anima. Il problema per il terapeuta diventa quello di mantenere separati i bisogni in-teriori da quelli esteriori perché in ogni minaccia di suicidio l’individuo confonde interno ed esterno. Ciò è possibile distinguendo la storia dell’anima, che emerge con il morire per il mondo, dall’anamnesi. Per Hillman l’anima ha bisogno dell’esperienza della morte, ma tale esperienza può essere fatta in altri modi, oltre che con il suicidio. Ricorda ad esempio la de-pressione, l’intossicazione, l’amnesia. Tentare di prevenire l’esperienza della morte ne esalta il potere e denota il nostro timore di fronte alla stessa, ma l’anima neces-sita di questa esperienza per poter rinascere. L’analisi può aiutare l’anima in questo percorso, in questa ricerca dell’esperienza della morte prima che avvenga la morte reale. È il momento della verità, della disperazione analitica, del vuoto dell’anima e dell’offerta alla psiche della possibilità di esprimersi e dove il non soffrire nulla analitico è la miglior forma di trattamento. È l’essere insieme all’altro di fronte alla morte, consapevoli che l’assenza di speranza rappresenta l’inizio della trasforma-zione e della resurrezione: “Il suicido è il paradigma della nostra indipendenza da chiunque altro e quindi è anche egoismo che va inteso come piccolo seme dell’in-dividualità”. Nel poscritto redatto da Hillmann quaranta anni dopo, la demarcazione tra ani-ma e vita diventa meno netta. Lo studioso corregge l’opposizione tra lo sviluppare l’anima ed il vivere la vita e rivede altresì i propri pregiudizi contro il modello me-dico. Evidenzia il concetto di anima mundi, l’anima del mondo e nel mondo, che sfugge al dominio dell’individuo per cui il suicidio diventa un problema della comunità. “L’uccisione di sé significherebbe l’uccisione della comunità e insieme coinvolgimento della comunità nell’uccisione”. Hillman conclude affermando che per eliminare l’idea dell’individualità non è necessario uccidersi. Possiamo com-prenderla fino a che si estingua e cercare di penetrare l’aspetto esterno del mondo per arrivare alla sua anima alla quale siamo intimamente legati.
RIASSUNTO Il suicidio accompagna da sempre l’uomo nella sua storia personale e sociale. Gli stu-diosi contemporanei del suicidio sono convinti che non esiste una struttura di personalità ed una specifica psicodinamica connessa ad esso. In questo elaborato viene posta particolare attenzione alle dinamiche psicologiche, che sono alla base dell’uccisione di sé.
SUMMARY Suicide goes with man all along with his personal and social history. contemporary scientists believe that sucide is not related to personality structure and a specific psy-chodynamics. In this work we give special attention to psychological dynamics on the basis of suicide.
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